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PROGETTO EDITORIALE
Antonio Cosola taglia, leviga, immagina, disegna in superficie quello ch’è dentro la materia. Maneggia con cura “la creatura” in grembo, come una crisalide … A me non resta che attendere la schiusa del vecchio bambino.
Come gli uccelli volano nello spazio, disegnando traiettorie impercettibili, così io volo nello spazio ideale che separa la mia macchina fotografica dagli oggetti di Antonio Cosola, disegnando delle geometrie, scoprendone delle altre. Continuo il mio viaggio, cambiando continuamente prospettiva, traiettoria. Scopro i codici di geometrie naturali e le regole di oggetti senza tempo, scopro il limite tra realtà e fantasia, entro in una nuova dimensione.
Nella concezione mitico-rituale, alla base delle culture tradizionali, tutto ciò che è visibile è sempre manifestazione della potenza sacrale, e per ciò stesso esiste; per cui ciò che si vede e che ha forma ha una sua essenza, che alcuni chiamano anima. Quell’essenza la possiamo riconoscere come memoria o traccia dei vissuti che si rapprendono nelle forme che l’esperienza e l’uso hanno reso vive. Quelle forme e quei vissuti delle cose ci appartengono, sono sempre attive nella memoria e fisicamente, se ne ricostituiamo la datità oggettuale e formale. Sono le protesi inseparabili che ci identificano per ciò che siamo e che siamo stati, o che vorremmo ancora essere.
Questa riappropriazione si compie attraverso un processo esterno allo spazio e al tempo storico, nel quale, come sonnambuli della nostra cultura passata, andiamo realizzando un mito, quello della “Civiltà contadina”, sorto dopo la scomparsa di ciò che realmente siamo stati. Gli oggetti, allora, sotto la sollecitazione emozionale del contatto con tali miniature, mi piace ipotizzare, che forse conservano, come minuscoli sepolcri la memoria anche dei nostri vissuti sedimentati e fusi nella loro stessa forma che è sempre correlata alla funzione cui il loro impiego rimanda. Mani sapienti ne compongono le spoglie della fatica trascorsa e ci ripresentano, attraverso la finzione intellettuale del fare arte, così quasi per gioco, la loro vita trascorsa, la nostalgia di ciò che, forse, a suo tempo, non sapevamo di essere.
Di recente, papa Ratzinger, a Madrid, parlando ai giovani, disse: ”Portate Dio nel mondo”. Da laici, si potrebbe dire: “Portate nel mondo quello che, per millenni, fu contadino e sorresse la sopravvivenza della stessa umanità”. Ed è in questa chiave che si vorrebbe fossero letti i prodotti di incisione di Antonio Cosola. Non si vorrebbe, cioè, che fossero visti come l’espressione dell’otium di un uomo che, costretto ad andare in pensione anzitempo, incidendo nel legno, ha voluto riempire le sue lunghe giornate. Non li si consideri nemmeno come il segno di una “nostalgia” romanticamente intesa, ma, etimologicamente, e in senso più profondo, come dolore per una perdita, sofferenza per un ritorno, sentito desiderium di perenni “significati”, di cui gli oggetti, da lui realizzati e qui raccolti, furono e sono i “significanti”.
Antonio Cosola documenta attraverso i suoi manufatti la vita contadina perché la conosce bene. Infatti discende da una famiglia di “parchieri”. Molto probabilmente il primo Cosola materano, Saverio Vincenzo Onofrio, arrivò da Adelfia (BA) intorno al 1820 al seguito della famiglia Malvinni Malvezzi per curare i terreni alberati di loro proprietà. L’abilità manuale si unisce alla precisione della tecnica grazie ai suoi studi come congegnatore meccanico ed al suo lavoro in Ferrosud."
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